East Rodeo - Morning Cluster (Menart Records/El Gallo Rojo/Pulse 2012)




di Paolo Finocchiaro - Quando anni fa una mia cara amica, che non vedo e sento da tempo, mi fece ascoltare per la prima volta gli East Rodeo (credo fosse il duemilasei o duemila sette), per il fatto che li conosceva di persona e me ne raccontava alcuni retroscena, rimasi piacevolmente colpito dalla loro personalità e commistione di suoni. Essi andavano dal burlesco, ai ritmi slavi, al rock di matrice zappiana, crimsoniana e da influenze alte come Cage e Stockhausen. Oggi, per puro caso e perché ho in mano il “nuovo” lp (per la verità già uscito nel mercato croato nel duemila undici) della band, mi ritrovo a pensare a quei giorni e a scrivere una recensione che va al di là, diciamo, di quelle scritte fino a oggi; la nostalgia, sigh!

Il gruppo nasce nel duemiladue dalle forze creatrici dei fratelli croati Sinkauz (Nenad e Alen), e insieme ad altri musicisti nel duemila quattro portano al compimento Kolo, loro prima uscita discografica. Poi nel duemila sette con un significativo cambio di line-up (entrano Alfonso Santimone alle tastiere, all’elettronica e al programming e Federico Scettri alla batteria), al tutt’oggi stabile, fanno uscire Dear Violence. Per Morning Cluster il discorso riprende da lì, e cioè stiamo parlando di un album ricco d’influenze e ricerca, dove da un lato possiamo scorgere dalle fibre delle composizioni delle solide basi math-rock, noise, post-rock e se vogliamo anche del jazz (indubbia conseguenza degli studi di alcuni dei componenti) parliamo per esempio di pezzi come Trom, Mrs. Cluster o Re: Trom. Dall’altra parte, invece, ci sta la personalità più sperimentale del quartetto, ovvero le tessiture elettroniche e programmatiche (939 Hz, Ballad Of LC, Brod) che con le loro fitte ragnatele di suoni delineano un ascolto più avvincente ma sicuramente non facile, ma man mano che gli ascolti si fanno più numerosi rendono l’insieme più vicino e chiaro alle nostre meningi.

Un altro aspetto decisamente da non sottovalutare sono le composizioni dove vi è una leggera ma decisa estrinsecazione della voce. Per l’appunto la band in questo album si è avvalsa di significative e importanti collaborazioni dal panorama indipendente internazionale e italiano. Difatti, sono proprio i pezzi dove i nostri musicisti si avvalgono di “featuring” in cui la voce esce la testa dal turbinio squadrato degli strumenti. Per intenderci, stiamo parlando di nomi come Marc Ribot (Tom Waits, John Zorn, Lou Reed, ecc.) in “Crin Gad”, “Straws In Glass” e “American Dream”, Warren Ellis (Nick Cave and the Bad Seeds, Dirty Three) in “Step Away From The Car” e lastbutnottheleast Giulio Ragno Favero (Teatro Degli Orrori, One Dimensional Man) alla produzione e coltelli in “Straws In Glass”.

Che dire più? Ah, grazie amica cara...





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