di Paolo Finocchiaro - Non inizierò questa recensione encomiando i soliti triti e ritriti leitmotiv della Seattle
d’Italia o della Milano del sud. No, per favore, basta. Catania non è mai stata
tutto questo o per lo meno, tirando fuori questo argomento, non se ne faccia una
puntata da telenovela sudamericana perché quest’ultima sarebbe stata meno
imbandita, con molto meno insistenza, di certi stereotipi ripetitivi. E va beh.
Sono state soltanto, senza maldicenza, “leggere” dicerie messe in giro da
qualcuno, per imbastire una discussione tormentone per ragioni, diciamo così, turistiche,
di hype visivo, di vendita o di attrattiva su certe realtà musicali pur sempre
meritevoli. Ecco, non me ne frega ora e non me ne fregava neanche prima, di
codeste definizioni. Finalmente l’ho scritto e che sollievo, ah. La figlia del Mongibello è stata un’altra
cosa, una cosa a sé. Come tutte le cose, bene o male, vissute o che vivono in
certi ambienti.
Da queste poche ma importanti premesse vorrei introdurvi
a un disco, un nuovo disco, uscito a marzo del duemila tredici. Il disco in
questione è “Progressive In My House” dei deMANAGERS (scritto proprio così, eh,
non ci confondiamo). Questa chicca tutta sicula, etnea, si fa per dire, esce
per l’eclettica Edwood Records e per la palermitana Succo Acido Label. Entrambe
etichette di valore, impegnate nella promozione di band al di fuori di
classiche vetrine e boriosi cliché sonori. Quest’ ultima, con la rivista Succo
Acido è anche impegnata nel campo dell’informazione culturale e di circuiti artistici
altri. Dategli un’occhiata, ne vale.
Bene. La band registra tutto in modalità do it yourself e
fa di necessità virtù. Possiamo ammetterlo perché il disco ci porge all’udito
un circuito nostalgico. Un cerchio che si chiude: dei ricordi. Una generazione?
Comunque, quattro baldi giovani, orgogliosamente amici, si ritrovano in una
casa a registrare e l’avventura del disco parte. Parte , e sì, ma da non molto
lontano. Avete presente i Clinic alla loro prima avventura
discografica? Il (Post) grunge e certo noise ruvido (Progressive In My House)? I Brainiac
che suonarono in una calda notte d’estate anni novanta a Catania (William Blake Blues)? Ecco, basta. E’ tutto qui, forse, quasi.
Infatti, dicevo, quasi. Difatti, mi sa che uno o più di
uno dei baldi giovani sopracitati ha o aveva una certa predilezione per la
break beat old school, il dub o, forse, certa drum ‘n’ bass. Dai, si, possiamo
dirlo: Elettronica. Si, anzi, ne sono
quasi più che sicuro. Ed esattamente lo si evince, spero di non sbagliarmi, da
pezzi come Boogie Bass e Sharing. Pezzi dove fa da padrone anche
mister synth. Ma vorremmo dimenticarci, azzolina, di certo punk-blues anni
ottanta con accenni garage (HeavyMetal
III)? E ancora: del synth-pop
sghembo e del post-punk magaziniano (A-ssolo)?
Certo, è anche apprezzabile ammettere, ancora, che tra le
righe soniche del disco si riesce anche a captare il lo-fi seminale dei Pavement e non cosi proprio al volo,
infine, l’influenza sotto le pieghe della voce di certi Mark Linkous (Sparklehorse) e J
Mascis (Dinosaur Jr) e permettetemi l’azzardo, gli Yuppie Flu da versante pop. Sentire la conviviale e divertita Pretty
Rose, prego.
Voi
direte: tutto qui? Si, proud Rock against the modern times.
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