di Sisco Montalto - Quando la musica è fatta con l'anima e la passione vera, quella non legata solamente all'esibizionismo, al denaro, al successo, puo' trasmettere immediatamente qualcosa, al di là dei confini, della lingua utilizzata, dei gusti di ognuno (almeno mi piace pensarla così) di noi per un genere piuttosto che un altro.
Skint and Golden, l'album nato dall'amicizia di Fabrizio Cammarata e Paolo Fuschi, regala un viaggio emozionale e immaginario, riuscendo a unire posti e realtà immensamente lontani (e che non si incontreranno mai) che diventano vicini con estrema facilità.
In questa intervista Fabrizio racconta come la sua inesauribile voglia di conoscere e vedere il mondo, influenza poi la sua musica, il suo pensiero e la sua visione delle cose...
-Fabrizio, mi racconti come é avvenuto l'incontro con Paolo Fuschi e come nasce il disco Skint and Golden?
“Io e Paolo siamo amici dai tempi della scuola, e abbiamo sempre condiviso passioni musicali di ogni tipo, ma soprattutto quello per il soul, il blues, il funk, il reggae e la Motown. La musica black, insomma. Poi lui una dozzina di anni fa andò a vivere a Manchester, e dopo una lunga gavetta è diventato un chitarrista di riferimento per questi generi nel NorthWest inglese. Io ho continuato a vivere a Palermo e ho portato avanti il mio lavoro, i miei dischi, e spesso capitava di vederci, ci si incontrava nel mezzo delle nostre tournée. Volevamo fare un disco insieme da più o meno dieci anni, ma a volte le cose che sembrano impossibili per impegni, limiti geografici o semplicemente mancanza di intraprendenza hanno bisogno di un atto magico, di follia, fatto senza pensare alle conseguenze. Per noi è stata una telefonata che ho fatto a Paolo nell’Aprile 2013. Non avevamo né canzoni, né una vaga idea di come e con chi registrarle. Dopo 4 mesi avevamo il disco pronto.”
-Un disco nato più per soddisfare una vostra esigenza o c'è qualcosa che volete dire con questo lavoro?
“Direi entrambe le cose. L’esigenza ti ho già spiegato da dove nasceva, una cosa tutto sommato adolescenziale, abbiamo fatto finta di non avere nessuno a cui rendere conto con la nostra musica, ci siamo voluti divertire un mondo come facevamo a 14 anni, ma con la maturità artistica che nel frattempo si è sviluppata in entrambi. Mentre scrivevamo le prime canzoni del disco ci accorgevamo che alcuni temi ricorrevano in quello che stavamo creando. Le nostre canzoni stavano parlando a una generazione che sta vivendo in pieno una crisi che ancor prima di essere economica, globale, discografica è una crisi della speranza. È come se fossimo piombati in una nebbia di rassegnazione, senza accorgercene, come se ci stessero rubando la capacità di sognare, come invece facevano i nostri genitori nei decenni del dopoguerra. Man mano che nascevano, le nostre canzoni – qualcuna più, qualcuna meno – chiamavano tutti a raccolta per riprendere in mano la nostra capacità di creare sogni, una creatività che si assopisce in silenzio ogni giorno di più, mentre non ce ne accorgiamo immersi fra gli status di Facebook e l’instant messaging.”
-Il disco riprende sonorità blues, soul, funk (come tu stesso dici nel presentazione del disco). Il suono risulta così molto internazionale. Ascoltandolo sembra essere un lavoro molto curato. Quanto c’è di naturale, istintivo e quanto di pensato in Skint and Golden?
“Abbiamo passato i trent’anni, facciamo dischi da più di dieci anni, e dopo tutto questo tempo credo che si arrivi a un punto in cui non riesci più a definire ciò che è istinto e ciò che è razionale nella musica che fai. Gli strumenti che servono a rendere ciò che ti frulla nella testa sono molto immediati, e quindi ci si diverte sempre di più. In più hanno lavorato al disco professionisti di altissimo livello, Justin Shearn (che suona anche le tastiere) per le registrazioni a Manchester e Fabio Rizzo e Francesco Vitaliti (800A Studios) per il missaggio che abbiamo fatto a Palermo.”
-C'è in Skint and Golden qualcosa del tuo progetto solista? La grande contaminazione che fa della tua musica una sorta di world music?
“La formula “world music” mi piace tanto, se non fosse che oggi ha un significato convenzionale che è molto lontano dalla mia filosofia. Però sì, credo tantissimo nella globalità della musica, a volte sento dei commenti sulla “sicilianità” della mia musica, ma la verità è che io mi identifico come “europeo”, è l’unica nazionalità a cui mi sento di appartenere. Un “europeo” che prende continuamente in prestito ingredienti da tutto il mondo. In “Skint & Golden” c’è molto di mio, forse è un’esperienza in cui la vicinanza di Paolo mi ha permesso di liberare una solarità che ogni tanto tengo un po’ troppo nascosta.”
-Quanto sono importanti per te le contaminazioni in campo musicale? Quanto arricchiscono la tua musica?
“Come ti dicevo, le contaminazioni sono tutto. E agiscono su ciò che scrivo nei modi più insospettabili. Se ti dicessi che attualmente la stragrande maggioranza dei miei ascolti sono Tinariwen, Chavela Vargas, e il flamenco andaluso? Peraltro tutta musica non in inglese, che è la mia lingua musicale! Non è facile ravvisare le tracce di queste cose in ciò che faccio, ma io le sento tantissimo, per me c’è un “prima” e un “dopo” l’aver scoperto queste voci.”
“Fin dall’inizio della mia carriera, con tutti i sacrifici connessi che puoi ben immaginare, ho deciso che il territorio in cui mi muovevo dovesse essere tutto il mondo. Non volevo appartenere a un mercato singolo, e il tipo di cose che scrivo forse mi ha aiutato a essere considerato un artista, diciamo, “globale” ovunque sia andato. Quando, giovanissimo, facevo i primi concerti all’estero, si sentiva troppa “americanità” nelle mie canzoni, sentivo di non essere interessante, ma soprattutto sapevo di non essere sincero. Oggi mi sento molto libero da ogni auto-classificazione, e quando è così va da sé che escono tutte quelle influenze di cui ti parlavo prima. Ecco, quando all’estero sentono questo, la gente capisce qual è il tuo valore aggiunto, e la tua presenza lì comincia ad avere senso.”
-Hai condiviso il palco con grandi artisti e girato il mondo però torni sempre a Palermo. E' un modo per tenere i piedi per terra e per trovare sempre nuova energia/ispirazione o cosa?
“La verità? In realtà non mi sono mai trovato davanti al dilemma di scegliere un posto in cui il mio lavoro e la logistica a esso legata fosse più comodo. Viaggio tanto, quindi tutto sommato poco importa dove sia la mia base, tanto sempre in aeroporto devi andare! Detto questo, Palermo mi serve per sentirmi a casa, per ricordarmi il valore del mio tempo e dei miei affetti. Forse un giorno mi accorgerò di avere cercato un compromesso, ma al momento non ne ho l’impressione. E poi, “Palermo”… quasi non è una città, è un concetto. È una di quelle città in cui senti – nel bene e nel male – una forza pazzesca. Ho bisogno di vivere a Palermo perché è una città affollatissima di angeli e di demonî.”
-Qualche giorno fa ho visto per caso una foto di Dimartino dove c'eri anche tu e i due storici chitarristi di Chavela Vargas, in Messico. Cosa state “combinando”?
“Ci sono due progetti “in progress” che riguardano il Messico. Uno è un road movie a cui lavoro da quasi due anni con il regista Luca Lucchesi, si chiama “Send You A Song” ed è girato fra America Latina, Turchia, Europa e Africa. È un diario alla ricerca della magia di una canzone che mi ossessiona da anni. Con Antonio Di Martino, stiamo lavorando a un progetto su Chavela Vargas, ma di più non posso dirti per il momento… una cosa bellissima, quasi un debito che ho nei confronti di questa “sciamana” che ha compiuto un miracolo in me. Come vedi non riesco a non lavorare con gli amici di sempre!”
-Ultima domanda: purtroppo noto che le più o meno “piccole” realtà siciliane hanno una indifferenza quasi totale per la musica indipendente di vario genere. Assisto sempre più spesso a live semi deserti, anche di artisti che altrove richiamano un numero importante di appassionati o semplici curiosi di novità. Tu come vedi questo fenomeno da persona ormai esterna in un certo senso? E' una mancanza di apertura mentale, di snobismo, di ignoranza o che altro?
“Domandona… Non so davvero, devi tenere conto del fatto che io non ho tanta familiarità con le scene musicali locali. Sicuramente nei primi anni mi stava molto a cuore questo tema, ma le logiche secondo cui la gente decide di fruire delle risorse artistiche migliori della propria città mi risultano caotiche, casuali, e ho smesso di farmi questo tipo di domande. Noi facciamo il nostro ruolo, che è fare bei dischi e bei concerti, ma è chiaro che la lotta con quello che propinano i talent show è impari. Si va affermando l’idea che si diventa artisti riconosciuti partecipando a robe che poco differiscono da “La Ruota Della Fortuna” di Mike Bongiorno, e questo è terribile.”
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