La "semplicità" dei Panicles, nel loro nuovo disco - Intervista







di Sisco Montalto - Il nuovo album dei veneziani Panicles, è sicuramente tra i dischi più interessanti che ho ascoltato ultimamente.

Semplicity è un album dalle sonorità fortemente internazionali, che riesce a mescolare sapientemente il sound pop (quello di ottima fattura) all’energia del rock sopratutto di stampo vintage, senza mai perdere di vista il contenuto dei testi. 

I Panicles dimostrano una grande maturità nonostante siano insieme da pochi anni, forse grazie anche alle tante esperienze fatte su diversi palchi, con grandi artisti e band (Deep Purple, Timoria, Verdena, Ministri, Motel Connection, Giardini di Mirò, Janis).

Insomma per farla breve, mi hanno talmente incuriosito che ho deciso di conoscerli meglio in questa intervista….

- Come mai la scelta di alternare testi in inglese e testi in italiano? E come mai nell'ultimo disco avete scelto (nuovamente) l'inglese? 
“Mik ha sempre scritto in inglese, quando però abbiamo firmato esclusivamente per l’Italia con EMI/Virgin ci è sembrato corretto tentare di esprimerci per la prima volta in italiano: nello stesso periodo abbiamo realizzato una ventina di canzoni in lingua italiana praticamente “finite”, ovvero anche arrangiate e registrate in studio, mai uscite in maniera ufficiale.
Forse un giorno vedranno la luce, forse le stravolgeremo completamente, o forse resteranno nei nostri archivi… Nessuno lo può sapere.

Ci sembra che i pezzi nuovi in inglese suonino meglio, e che i contenuti siano in certi casi anche più fichi. Perciò nulla contro la nostra lingua, anzi, adoriamo il nostro paese, ma ora siamo di nuovo proiettati verso il suonare sia “a casa” che fuori confine come band indipendente, perciò con l’inglese ci sentiamo più a nostro agio.”

- Ho letto che nel nuovo disco cantate la semplicità (che è anche il titolo del disco). Cosa significa semplicità per voi e come la legate al mondo musicale (nel quale ne vedo molto poca)? 
“Ci siamo molte volte chiesti cosa possa ancora essere "semplice", oggi. 
Per fare un esempio, dal punto di vista di Mik la semplicità sono le mani di sua nonna Nives, che ogni giorno gli infilavano in tasca un fazzoletto di stoffa pulito prima di andare all'asilo.

Oggi siamo, come tutti, quotidianamente bersagli delle scelte, delle varianti, delle possibilità, delle fregature e anche delle negazioni. Dal canto nostro non c'è qualcuno che ci sveglia al mattino e ci fa andare a letto la sera: siamo nel mondo. Ed essere nel mondo non sembra "semplice" il più delle volte. La musica rispecchia il mondo e appartiene agli uomini, e il suo habitat è spesso disastrato dalle leggi del commercio (proprio come tutto il resto, guarda caso). 

E’ sempre più difficile identificarsi, abbiamo complicato le cose.
La ricerca della semplicità nella musica, è forse quello che dovrebbe essere nella vita, dunque: cercare la radice, l’essenza, facendo non solo ciò che siamo obbligati a fare per mantenerci, ma quello che realmente ci piace. E proprio così è nato questo album. Dentro c’è quello che ci piace, altrimenti non lo avremmo fatto. E questo ci è sembrato un motivo valido per farlo.”

- Nella presentazione del disco viene citato Bukowski: un caso o in qualche modo lo scrittore americano vi ha ispirato? 
“La sua frase “La vita è semplice nella sua profondità” è apparsa alcuni mesi fa per caso sul monitor del computer di Mik mentre stava lavorando ad altro, ed è divenuto un “codice” con il quale abbiamo lavorato alle canzoni. 

Il percorso, come dicevamo prima, è infatti stato: “questo ci piace?”. Risposta: “SI”= “Andiamo avanti”. “NO”= “Ci ripenseremo a tempo debito, o… Mai più”.”

- Il vostro è un sound molto internazionale. Ci sono peró degli artisti italiani che seguite, che apprezzate o considerate fonte di ispirazione?
“Ci sono degli artisti che ci piacciono, in Italia (Subsonica, Verdena – dal vivo con WOW hanno spaccato di brutto - i vecchi giganti come PFM o il grande duo Battisti/Mogol, i primi due dischi del Teatro degli Orrori), anche se probabilmente quelli che ci piacciono di più sono gli indipendenti, e spesso ingiustamente ancora poco conosciuti rispetto ad altri. 
Citiamo alcuni nostri amici molto validi: Gonzalo, The Academy, Alfabox, Dolcetti, Novalisi, andateveli ad ascoltare se non li conoscete!” 

- Come nasce, tecnicamente,  Simplicity e più in generale la vostra musica? 
“Più o meno accade così: Mik ha un’intuizione, melodia e accordi, la porta in sala prove con una bozza della struttura, insieme si crea e rifinisce l’arrangiamento. Altre volte improvvisando su dei giri armonici si è scatenato il procedimento inverso, quindi poi Mik ha finito i pezzi a casa, aggiungendo il testo o magari un bridge dove mancava.”

- Avete suonato anche all'estero. Quali differenze avete riscontrato con l'Italia? 
“Il pubblico sembra un poco più attento e curioso, si coinvolge con maggior facilità. Abbiamo perso un po’ di “gusto per il live” in Italia… Troppi Reality e roba del genere. Poi potremmo parlare ancora dell’esperienza magica di 8 giorni di sessions allo Studio 2 di Abbey Road, con la produzione di Roberto Tini, nel 2011, ma il fatto è che suonare lì dentro non è lavorare, è sognare con in mano uno strumento in un tempio della musica, dove la professionalità è indiscutibile e la Storia delle migliori produzioni musicali è in ogni atomo del luogo. Quindi meglio non parlarne, perché non ci sono parole adatte a descrivere quell’esperienza in maniera corretta.”

- Cosa significa essere sotto contratto con una major, in termini di visibilità e di “successo”?
“Ecco, se hai fatto un Reality forse ha senso stare con una major, si aprono automaticamente canali piuttosto importanti. Se il percorso è quello tradizionale (cantina/garage per le prove, demo, date nei locali, ecc.), oggi come oggi, meglio arrangiarsi. Investire tutto di propria tasca, mettere la propria energia, trovare un buon ufficio stampa, qualche amico in qualche agenzia per i live, fare video, essere attenti ai social. Noi stiamo lentamente imparando ad arrangiarci, grazie agli errori, e grazie anche all’esperienza in EMI.”

- Fare un certo tipo di musica in Italia quanto ripaga? Che senso ha oggi fare un disco in un paese nel quale i dischi si vendono pochissimo? 
“La risposta è semplice: se desideri farlo per vivere, per guadagnare, lascia perdere, a meno che tu non sia un grande turnista o un genio che fa cose incredibili mai viste prima (molto pochi). Se invece desideri farlo perché ami farlo hai più probabilità che un giorno diventi il tuo mestiere, probabilmente, perché ci metti la faccia e tutto il sudore che serve, senza pensarci troppo sopra. 

Noi reinvestiamo sempre praticamente tutto quello che incassiamo (anche di più, ultimamente, perché degli amici ci hanno prestato dei soldi per realizzare l’ultimo disco e per coprire le spese per l’ufficio stampa). Però ogni volta arriva un’esperienza nuova, e questo è un dono, questo ci tiene a galla, ci spinge. Il pubblico, suonare insieme, per le persone, questo è il carburante dei Panicles.”

-Grazie ragazzi, alla prossima!














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